Reddito di cittadinanza, basta con i cliché
Garantire un’esistenza dignitosa significa assicurare sviluppo al Paese, convinti tutti che non si sceglie di essere poveri, men che meno che la precarietà sia una forma di destino ineluttabile.
Il reddito di cittadinanza merita una discussione seria, che vada oltre i post indignati e i cliché che si leggono ormai ovunque. E se c’è qualcosa che rende le argomentazioni sterili è l’atteggiamento, purtroppo diffuso, che porta a stereotipare fenomeni che poi impattano sui più deboli.
Partirei da due doverose premesse:
1) La precarietà non è un destino.
2) La povertà non si sceglie.
Quel senso di sconcerto, condito da un sufficientemente finto interesse verso le povertà, quando leggiamo che gli imprenditori non trovano forza lavoro perché i percettori di reddito di cittadinanza preferiscono stare a casa senza fare niente, in realtà va ribaltato: il senso di sconcerto ci deve far sussultare alla presa di coscienza che spesso dietro una proposta di lavoro si cela un mondo di nero, che la retribuzione con tutte le sue giuste voci è un miraggio per la maggior parte delle maestranze, che la sicurezza sui luoghi di lavoro è considerato un inutile costo.
L’incrocio tra domanda e offerta di lavoro è matematicamente esatto quando i due fattori, lavoratori e imprese, realizzano passaggi puntuali e rigorosi, cioè quando entrambi non giocano a nascondersi, a eludere le norme, quando gli imprenditori non ritengono che si possa offrire qualsiasi cosa perché tanto non succede niente. Ritengo, pertanto, piuttosto ambiguo continuare a dire che non si trovano lavoratori perché i percettori di reddito di cittadinanza preferiscono ricevere la somma mensile in assoluto ozio, in alcuni casi definito parassitismo. È come dire che il problema è che le persone che percepiscono il reddito di cittadinanza preferiscono vivere con scarsi 1.000 euro al mese piuttosto che avere un impiego tutelato. E che dall’altra parte imprenditori giusti e corretti cercano maestranze da contrattualizzare e garantire ma non trovano.
Non mi sembra che sia proprio così: lo dicono i dati sul lavoro sommerso, sulle economie informali, sulle economie criminali, sugli incidenti nei luoghi di lavoro; lo dicono il tasso di inattività delle rilevazioni statistiche e il numero delle cessazioni e delle attivazioni (saldo in negativo ormai stabile) delle rilevazioni amministrative. Colpevolizzare i percettori di reddito di cittadinanza per una manciata di “furbetti” (orribile termine, anch’esso ormai stereotipato al pari del “divano” su cui spiaggiano i nostri giovani e della “poltrona” dei politici) onestamente mi sembra davvero ingiusto, colpisce tutti e mi viene pure da dire che è facile in questo caso fare la parte del puro: come mai la stessa levata di scudi non c’è mai per quegli evasori fiscali sulle cui spalle grava un peso di 110 miliardi di euro l’anno? Perché stereotipare i più deboli è semplice, stigmatizzare i ricchi e gli evasori molto meno.
Detto ciò, va pure evidenziato che l’assistenza, posta come momento di transizione tra il non-lavoro e il lavoro, non deve essere posticciamente confusa con i servizi e le misure di politica attiva per il lavoro. Ovvero, il fatto che per un certo numero di mesi le persone possano ricevere un sussidio e nel frattempo essere prese in carico e accompagnate al lavoro è lo scenario ideale; purtroppo non è accaduto per il reddito di cittadinanza nel nostro Paese; una serie di motivi, primo fra tutti la pandemia, e poi uno scenario economico e industriale anche pre-pandemico piuttosto asfittico e complesso.
La discussione è molto articolata: da un lato imprenditori che lamentano pubblicamente (strumentalmente?) di non trovare maestranze, dall’altro centinaia di migliaia di disoccupati che aspettano un lavoro (tutelato, garantito, retribuito, con regolare contratto…) e dall’altro ancora i percettori di reddito di cittadinanza, considerato popolo a sé stante, che sta diventando per la vulgata una specie di Welfare Queen di reaganiana memoria.
Allora ci vuole un po’ di ordine: posto che la disoccupazione non è una scelta, che il welfare è una misura non solo sociale ma di politica economica, che la pandemia ha svelato tutte le ferite di un’economia altalenante, la mia riflessione va nella direzione della revisione del reddito di cittadinanza.
Non è possibile pensare che nel nostro Paese non si possa arrivare ad una misura universale di politica sociale; l’ho testato personalmente durante la pandemia nel ruolo di Assessore alle Politiche sociali del Comune di Napoli, città dalle mille facce dagli innumerevoli complicatissimi risvolti sociali ed economici. Meno male che c’era il reddito di cittadinanza in pandemia a Napoli, così come altrove; ritengo davvero che senza quel paracadute sarebbe stato ancora più complicato reggere un livello dignitoso di coesione (e tensione) sociale. Ma ora va rivisto, alla luce delle lezioni che abbiamo appreso in pandemia e verso il miglioramento delle condizioni di accesso al reddito da lavoro.
In sintesi: innanzitutto migliorare lo strumento del reddito di cittadinanza e renderlo universale significa ridurre le disuguaglianze che derivano dai diversi accessi al mondo del lavoro e contemporaneamente porre le basi per un piano per il lavoro che tenga in considerazione le diverse forme di disoccupazione, compreso quelle a cause territoriali, formative o di genere. Come dire, garantire un’esistenza dignitosa significa assicurare sviluppo al Paese, convinti tutti che non si sceglie di essere poveri, men che meno che la precarietà sia una forma di destino ineluttabile.