“Fondi pensione e assicurazioni investano nel Venture Capital”, la ricetta di Giurazza
A tu per tu con il CEO di Vertis, per parlare del 2021 della SGR ma anche di Mezzogiorno, differenze con l'Europa e investimenti seed
Il 2021 per Vertis è stato un anno positivo. Il suo ultimo fondo, VV5 Scaleup, ha già raccolto 35,3 milioni di euro e una nuova raccolta di capitali si attende nel primo semestre 2022. Inoltre, negli ultimi 6 mesi, la Società di Gestione del Risparmio ha anche realizzato importanti exit, vendendo 3 aziende, prese in carico in quanto startup, oramai abbastanza affermate da poter pensare in grande: AutoXY, azienda basata a Lecce che ha creato un motore di ricerca di auto usate, acquisita dal Gruppo Gedi; la napoletana Cogisen, che sviluppa software e tecnologie basate sull’intelligenza artificiale che utilizzano modelli cognitivi per il riconoscimento (come per esempio l’eye tracking), acquisita da una multinazionale americana; la salernitana Selematic, che progetta e realizza macchinari per il packaging di prodotti preconfezionati nei comparti food, non food e monouso, adesso controllata dal Fondo Mandarin Capital Partners.
Tre tra tante storie di successo, si dirà. Ma Vertis ha delle peculiarità: ha la sede principale a Napoli ed è la prima e unica SGR del sud Italia attiva nella gestione di fondi di private equity e venture capital; nei suoi investimenti ha un occhio di riguardo proprio alle realtà innovative e tecnologiche meridionali.
Cosa significa per un investitore nel capitale delle aziende avere la base nel Mezzogiorno, quali sono le difficoltà e cosa si può far per avere più investimenti nelle startup italiane? Lo abbiamo chiesto al CEO di Vertis Amedeo Giurazza.
Partiamo dalla vostra provenienza geografica: un fondo di investimento che ha la sede a Napoli è già una notizia…
“È una notizia, ma ci piacerebbe non essere da soli: la sana competizione e la collaborazione con altri fondi nel Sud potrebbe migliorare la condizione di tutto il Meridione. Da anni sento parlare di nuovi investitori nel Mezzogiorno, ma alla prova dei fatti al momento siamo ancora gli unici. Per creare nel Sud altre SGR, al pari di qualsiasi azienda, servono uomini capaci, visione, capitali e molto coraggio. Tornando a Vertis, poi da oltre sette anni operiamo in tutta Italia con una seconda sede a Milano, che resta la capitale finanziaria del Paese”.
Avete incontrato difficoltà inizialmente operando nel Meridione?
“All’inizio, ormai 20 anni fa, abbiamo fatto una gran fatica a far comprendere a università, associazioni industriali, aziende, professionisti e operatori economici cosa serviva affinché noi potessimo investire nei loro progetti e nelle loro aziende. Ma poi, gradualmente, le soddisfazioni sono arrivate e siamo diventati un punto di riferimento per il tessuto economico”.
Cosa manca di più al Sud?
“In tutta Italia c’è una mancanza di capitali per investimenti nella fase iniziale delle imprese (cd. seed capital), ovvero di chi investe nelle startup nella loro prima fase. Nel Sud però questa penuria è maggiore e molte imprese innovative non riescono ad andare avanti perché non trovano chi investe dai 300 mila a un milione di euro in questo segmento iniziale. Le startup che superano questa fase hanno già meno difficoltà a trovare investitori, ma le giovani startup presenti nel Mezzogiorno hanno vita difficile. Le faccio un esempio: un anno fa CDP Venture Capital lanciò una campagna di investimenti per le startup meridionali in fase iniziale, denominata ‘Seed per il Sud’. In pochi mesi riuscì a chiudere circa 40 operazioni di piccolo taglio; ciò ha dimostrato che esiste una forte richiesta di capitali seed che il mercato finanziario oggi non riesce a soddisfare”.
Voi farete qualcosa per gli investimenti seed nel Sud?
“Dopo che ultimeremo la raccolta di sottoscrizioni del nuovo fondo VV5, nel secondo semestre del 2022 abbiamo in programma di lanciare un nuovo fondo, che investirà a livello nazionale ma con un occhio particolare al Meridione, specificamente dedicato alle operazioni seed con ticket compresi tra 300 mila e un milione e mezzo di euro”.
Avete appena chiuso 3 importanti exit, con startup che adesso sono entrate a far parte di grandi gruppi, cosa farete del denaro incassato?
“Le cessioni delle 3 partecipazioni ci hanno fatto incassare circa 50 milioni di euro, generando forti plusvalenze. I regolamenti dei fondi che gestiamo prevedono che, una volta realizzati i disinvestimenti, dobbiamo rimborsare tutto il capitale ottenuto ai sottoscrittori. Tuttavia, siamo ottimisti sul fatto che chi ha investito nei fondi di Vertis e ha avuto buoni risultati, reinvestirà nuovamente nelle nostre prossime iniziative”.
Le startup lamentano che in Italia, rispetto all’estero, non ci sono finanziatori attenti a loro. È vero o è solo piaggeria italica?
“Faccio parlare i numeri. Recentemente ha avuto molto risalto lo stanziamento del MiSE di 2 miliardi di euro per il Venture Capital, che diventeranno oltre 3 miliardi grazie ad altre dotazioni. Un’ottima notizia, perché grazie a questa dotazione nasceranno nuovi fondi e si potranno rafforzare quelli esistenti, generando una moltiplicazione di operazioni di investimento nelle startup. Gli ultimi dati disponibili riguardanti il venture capital dicono che nel 2021 in Italia si è investito complessivamente 1,3 miliardi di euro, che sono il doppio del 2020 e il quadruplo del 2019”.
Allo stesso tempo, però, gli ammontare investiti nel Venture Capital nelle altre principali nazioni europee vanno da 4 a 7 volte in più.
“Una notizia passata in sordina è che la Francia negli ultimi mesi ha messo a disposizione per le startup ben 20 miliardi di euro, ovvero 10 volte quanto stanziato dall’Italia. Queste informazioni ci indicano che in Italia c’è una crescente attenzione per le startup ma, purtroppo, c’è il rischio che il gap con i principali Paesi europei invece di diminuire, aumenti ancor di più”.
Come se ne esce?
“Da anni si fa a vari livelli una moral suasion per convincere gli investitori istituzionali a investire nelle nuove realtà innovative. Finora, ciò non ha dato risultati e la mia conclusione potrà sembrare radicale, ma non lo è: bisognerebbe prevedere regole stringenti affinché le compagnie di assicurazione e i fondi pensione investano anche nel Venture Capital. Basterebbe destinare a questa asset class, nell’arco di 3 anni, lo 0,5% del proprio patrimonio e si otterrebbe una rivoluzione nella politica economica del Paese. Mi spiego meglio: fondi pensione e compagnie di assicurazione sono investitori di lunga durata, esattamente ciò che serve per gli investimenti in startup affinché abbiano il tempo per crescere e svilupparsi esponenzialmente. Investire in startup tecnologiche e innovative significa contribuire alla creazione della nuova classe imprenditoriale del paese, delle aziende del futuro e di nuova occupazione qualificata. E sa cosa? Questi nuovi occupati saranno quelli che pagheranno le pensioni ai lavoratori di oggi, innescando un circolo virtuoso”.