Ma l’Italia può fare a meno del gas russo?

A conti fatti, rinunciare al gas russo significherebbe per la nostra economia perdere il 15% dei consumi, chiudere migliaia di aziende, perdere posti di lavoro, far aumentare i prezzi e rischiare di innescare una spirale inflativa senza fine.

Può l’Italia fare a meno del gas russo? Dallo scorso 24 febbraio, il giorno in cui è iniziata l’invasione dell’Ucraina, questa è la domanda che continua a riecheggiare un po’ ovunque nel nostro Paese. Dalle stanze dei palazzi del potere romano fino alle bancarelle affollate dei mercati rionali tutti si chiedono se, come ha detto il premier Mario Draghi, dovremmo davvero scegliere tra il condizionatore acceso e la pace. La risposta nel breve e medio periodo, a guardare i dati sulla provenienza dei combustibili fossili che arrivano nel nostro Paese, non può che essere negativa.

Le azioni messe in campo e la dipendenza italiana

Questo nonostante l’accordo tra Italia e Algeria, da poco firmato, per una fornitura aggiuntiva di 9 miliardi di metri cubi di gas, di cui 3 in arrivo per il prossimo inverno e 6 nel 2023. Nonostante il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiTESAI) e le parole del ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, che rassicura sulla possibilità di diversificare lo stock energetico nazionale. E nonostante i viaggi del suo collega agli Esteri Luigi Di Maio che prova a trovare nuovi fornitori. 

I dati della dipendenza italiana dal gas russo parlano chiaro. Innanzitutto bisogna partire da un dato che dimostra come l’Italia sia dipendente per il gas completamente da fornitori stranieri. Nel 2021 La produzione italiana di gas ha soddisfatto solo il 4% dei consumi, il restante 96%, ben 76 miliardi di metri cubi, è assicurato dai giacimenti di altri Paesi.

Il 40% del totale arriva dalla Russia, il 31% dall’Algeria, il 10% dell’ Azerbaijan, il 9% dal Qatar, il 4% dalla Libia, l’1% dagli USA, stessa percentuale dalla Nigeria e il restante 4% da altri Paesi. Ma la Russia non ci fornisce solo la quota maggiore di gas. Il 25% delle risorse energetiche italiane arrivano da Mosca, e questo dato fa della Federazione Russa il primo Paese da cui l’Italia dipende per soddisfare il proprio consumo di fonti fossili. Ma è anche l’unico Paese da cui dipendiamo per tutte le fonti fossili, è, infatti, il primo fornitore nazionale di carbone e gas e il terzo di petrolio.

Per capire quanto siano fondamentali queste risorse che arrivano da Mosca per il nostro Paese bisogna rispolverare alcuni dati. Il ministero dello Sviluppo Economico nello stimare le riserve di combustibili fossili al 31 dicembre 2019 ha accertato che sarebbero pari a 46 miliardi di metri cubi. Questo significa che se dovessimo interrompere immediatamente tutte le forniture estere di gas, le riserve durerebbero meno di 7 mesi. Altro che indipendenza dal gas russo.

Il mix energetico italiano

L’Italia ha scelto, negli anni, di eleggere il gas a fonte primaria di approvvigionamento energetico. Questa scelta però, non è stata accompagna da una politica energetica strategica e non si è investito sui rigassificatori, si sono bloccate le nuove estrazioni, non si è agito per aumentare il numero di gasdotti e non si sono trovati nuovi fornitori in giro per il mondo.

Come si può, allora, essere indipendenti dal gas russo se non è stata mai messa in piedi una vera e propria strategia internazionale di approvvigionamento razionale che facesse della diversificazione la base per assicurare forniture costanti? Nel nostro mix energetico, e cioè le varie fonti di energia attraverso cui un Paese soddisfa il proprio fabbisogno, il gas la fa da padrone e infatti ha superato il petrolio diventando la prima fonte energetica nazionale. In Italia il 39% dell’energia è prodotta con il gas, il 35% con il petrolio, il 19% con le rinnovabili e il 5% con il carbone, il restante 2% è d’importazione. 

L’accordo con l’Algeria per affrancarsi dal gas russo

L’accordo sancito in questa settimana con l’Algeria per affrancarsi dal gas russo, che prevede una fornitura aggiuntiva di 9 miliardi di metri cubi risulta, a guardare i dati reali sulla dipendenza energetica italiana, del tutto insufficiente. La Russia esporta in Unione Europea 115 miliardi di metri cubi di gas, di cui 52 miliardi finiscono in Germania e ben 29 in Italia.

Basta dunque guardare ai numeri per rendersi conto di quanto possa essere impensabile sostituire una quantità così preponderante di gas russo con accordi di questo tipo. In più con la Russia abbiamo scelto una tipologia di contratti spot per la fornitura di gas. Accordi di breve durata che per loro natura sono molto sensibili alle oscillazioni di mercato e che oggi fanno sentire la loro volatilità. 

E le rinnovabili?

Nonostante l’Italia abbia una quota di produzione energetica da fonti rinnovabili del 19%, e dunque superiore a gran parte degli altri stati europei, questa si dimostra insufficiente a garantire una vera tradizione ecologica.

Nel 2019 si calcolava che grazie all’espansione delle rinnovabili l’Italia sarebbe diventata indipendente energicamente dall’estero entro il 2050. Per quell’anno infatti la produzione interna di energia avrebbe superato il 50%. Purtroppo però i cambiamenti del mercato globale hanno mostrato tutti i limiti delle rinnovabili, soprattutto come possibili fonti sostitutive di quelle fossili nel breve periodo

Innanzitutto per sfruttare le rinnovabili c’è bisogno di materie prime cosiddette critiche, quelle che oggi sono diventate vere e proprie risorse su cui si giocano gli scenari geoeconomici internazionali. Prime fra tutte le terre e i metalli rari che oggi abbondano in realtà geografiche come la Russia, la Cina, l’Africa e l’America del Sud, scenari nei quali non siamo presenti né come Italia, né come Unione Europea.

In Russia, ad esempio, si concentra il 40% della produzione mondiale del palladio, un minerale fondamentale per il comparto dell’automotive, il 9% di quella del nickel, il 12% di quella del platino. Numeri che mostrano quanto la Russia, come potenza energetica, giochi un ruolo fondamentale anche nel settore delle rinnovabili. 

Gasdotti che arrivano in Italia

Il gas arriva in Italia per buona parte attraverso i gasdotti, infrastrutture che come ci insegna la storia dei “No Tap” in Puglia, vengono avversate dalle comunità locali e che in Italia, troppo spesso, hanno rappresentato esperienze paradigmatiche della sindrome nimby (not in my back yard).

Dall’Algeria arriva, a Mazara del Vallo, il gasdotto Transmed, di 2 mila chilometri di tubi dai quali passa il 30% del totale del gas che importiamo. Sempre dalla sponda sud del Mediterraneo arriva una seconda struttura, a Gela, il Greenstream: 520 chilometri di tubature che dalla Libia arrivano in Sicilia. Una struttura che potrebbe incrementare il suo flusso di fornitura ma che, anche a causa della situazione politica attuale non dà sicurezze concrete.

Dall’Azerbaijan arriva invece in Puglia il TAP, il famoso e tanto vituperato Trans Adriatic Pipeline, con una lunghezza di 878 km che attraversa Albania e Grecia. Da qui giunge il 10% del gas importato in Italia. A questi si aggiunge, a Passo Gries, in Piemonte, il gasdotto Transitgas che dalla Norvegia trasporta gas natale in Italia e che rappresenta solo 1% della fornitura italiana. 

Queste strutture nei piani del governo potrebbero essere una fonte maggiore di fornitura, si punta infatti ad aumentare di 2 miliardi di metri cubi il gas in transito dal Greenstream e dal TAP. Prima però bisognerà riuscire a trovare nuovi accordi con i Paesi d’origine. Certo trovare accordi con governi fragili o comunque poco trasparenti come quello libico o quello azero, non è cosa semplice e pensare di sostituire la Russia di Putin con l’Azerbaijan del presidente Ilham Aliye, figlio e successore di Gaydar Aliev, una famiglia al potere dal 1993, non è molto rassicurante.

Il GNL (Gas Naturale Liquefatto)

Il gas arriva in Italia anche con le navi. È il GNL (Gas Naturale Liquefatto), il gas che viene ridotto allo stato liquido abbattendone la temperatura. Nel nostro Paese esistono solo tre siti di rigassificazione, e cioè porti nei quali il gas liquefatto viene riportato allo stato gassoso, due nel Tirreno, a Pariglia e a Livorno, e uno nell’Adriatico, a Rovigo.

Anche queste strutture che oggi sono diventate fondamentali per garantire energia al Paese, negli anni sono state avversate dalle comunità locali che spesso ne hanno impedito la costruzione o richiesto con forza la rimozione. La politica, sia locale che nazionale, non è mai riuscita a rompere quel circolo vizioso, fatto di consenso, lotte ambiereste e che spesso si mischiavano ai movimenti antagonisti, che si è creato per decenni attorno alle grandi opere infrastrutturali in Italia. È anche per questo che oggi ci troviamo con un sistema di infrastrutture energetiche fragile ed inadeguato.

A conti fatti, dunque, rinunciare al gas russo significherebbe per la nostra economia perdere il 15% dei consumi, chiudere migliaia di aziende, perdere posti di lavoro, far aumentare i prezzi e rischiare di innescare una spirale inflativa senza fine. La banalizzazione draghiana della situazione drammatica che l’Italia sta vivendo, esplicitata nella dichiarazione: «gli italiani devono scegliere tra il condizionatore e la pace», alla luce dei dati assume, più che il tono di una battuta o di una gaffe, quello di un’analisi della realtà con la quale a breve ci troveremo a fare i conti.

 Trovare una soluzione è possibile ma a partire da una considerazione realistica del mercato energetico, delle sue dinamiche, delle sue distorsioni che dovrebbero essere compensata da una politica industriale ed energetica che negli ultimi decenni è stata la vera assente di questo scenario. 

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