Greenwashing: cosa significa?
Letteralmente "lavaggio di verde", il Greenwashing è quella pratica che "esagera" o rende ambigue le comunicazioni sull'attenzione verde dell'impresa. Ma quando siamo davanti a un caso di greenwashing e quando, invece, parliamo di green marketing?
Greenwashing, letteralmente “lavaggio di verde” o meglio “lavarsi di verde”. Si tratta di un neologismo inglese in cui capita sempre più spesso di imbattersi, dato dal neologismo sincratico della parola green (verde) e washing (lavaggio). Si utilizza spesso nei confronti delle grandi aziende, o meglio in riferimento alle strategie di comunicazione delle grandi aziende sui temi della tutela dell’ambiente e della sostenibilità ambientale. Ma cosa significa?
Si utilizza il termine greenwashing quando si vuole intendere che le operazioni che l’azienda, il brand o il marchio comunicano all’esterno in termini di tutela dell’ambiente e sostenibilità della produzione sono “di facciata”. Non a caso, la traduzione non letteraria di greenwashing spesso è ambientalismo di facciata, o ecologismo di facciata.
Che il tema green sia un argomento “anche” di marketing è un dato di fatto. L’attenzione all’ambiente e la rinnovata sensibilità dei cittadini di tutto il mondo, oltre alla crescente preoccupazione per il futuro del nostro Pianeta (l’unico al momento a nostra disposizione, per intenderci), si riflette anche nelle scelte commerciali delle industrie.
Tutti i grandi marchi e le grandi produzioni, di fatto, tendono a sottolineare le loro best practices in termini di tutela ambientale, dall’utilizzo di materie provenienti dal riciclo alle produzioni da agricolture o forestazioni sostenibili. Ogni azienda sfoggia i suoi pannelli solari o pianta alberi per pareggiare le emissioni di CO2. Quando queste operazioni servono solo a farsi belli agli occhi del cittadino e del consumatore e/o la comunicazione delle stesse tradisce una realtà diversa dei fatti, o ancora quando le operazioni green sono il viatico dietro cui un’azienda nasconde tutto ciò che invece non è green, allora parliamo di greenwashing.
Il caso ENI
Un caso emblematico? Quello di ENI e del suo famoso cane a sei zampe diventato qualche mese fa, durante il Festival di Sanremo, di tinta verde nel lancio di Plenitude. Difficile associare l’ambiente all’Ente Nazionale Idrocarburi, che come core business ha gas e petrolio. Ciò nonostante i tentativi di riposizionarsi e le operazioni a favore dell’ambiente promosse da ENI sono tante e più di una volta l’azienda è stata accusata di greenwashing. In particolare, con riferimento al lancio di Plenitude durante il Festival della Canzone Italia, Federico Spadini per Greenpeace dichiarò:
È inaccettabile che ENI sfrutti la vetrina di Sanremo, e dei tanti altri eventi che sponsorizza, per fare greenwashing e promuovere un’immagine di azienda attenta all’ambiente che non corrisponde affatto alla realtà. ENI continua a investire sul gas e sul petrolio, è il principale emettitore italiano di gas serra e una delle aziende più inquinanti del pianeta.
Federico Spadini
E non è l’unica accusa di greenwashing mossa ad ENI negli anni.
Greenwashing, comunicazione e consumatori
Si può sollevare il dubbio: ma quindi non si deve parlare delle pratiche sostenibili delle aziende per fare pubblicità? Chiaramente, la risposta è sì, se ne può parlare. La grande differenza la fa l’essere sostenibili e il dire di esserlo. Essere sostenibili, declinato nei tempi che viviamo, vuol dire che l’azienda si assume la responsabilità (globale) di rendere il suo prodotto e servizio sostenibile ambientalmente.
Viene da sé quindi che il greenwashing è in primis un problema legato alla comunicazione e quindi al marketing. Anche perché il verde vende e di indicatori in tal senso negli ultimi anni ne sono arrivati tantissimi.
L’EY Future Consumer Index lo scorso anno proprio di questi tempi affermava, in merito ai consumatori italiani, che durante l’acquisto si teneva in conto l’attenzione all’impatto ambientale (74%) con un occhio di riguardo al cambiamento climatico (65%), e che i semi dell’economia circolare iniziavano a germogliare facendo sì che gli italiani tornassero prepotentemente a riciclare prodotti o imballaggi dopo il primo utilizzo (85%). Ed è anche questo aspetto che ha spinto molti a correre in avanti, ad apporsi spillette di merito green sui packaging che forse non meritavano del tutto.
Il greenwashing si traduce prima di tutto in una comunicazione non corretta, fuorviante e da cui il consumatore deve potersi difendere e non a caso anche la sempre attenta Unione Europea negli ultimi mesi si è mossa.
La Commissione europea ha infatti suggerito nei giorni scorsi sostanziali modifiche ai documenti che regolano la concorrenza e i diritti dei consumatori (Consumer Rights Directive e Unfair Commercial Practices). Il portavoce del Dipartimento di giustizia della Commissione, Christian Wigand, intervistato da Economiacircolare.com ha dichiarato:
“Numerosi studi hanno dimostrato che molte affermazioni ambientali includono affermazioni vaghe (come “verde”, “amica della natura”, ecc.), che possono trarre in inganno i consumatori. Per questo motivo, la proposta introduce nella direttiva sulle pratiche commerciali sleali norme più specifiche per affrontare la questione. Le disposizioni proposte forniranno chiarezza agli operatori e faciliteranno l’applicazione da parte degli Stati membri”.
Christian Wigand, portavoce Dipartimento di Giustizia della European Commission
Quindi, giro di vite sulle affermazioni generiche e/o equivocabili, come quel “verde” e “amica della natura” sopra citate che non spiegano in alcun modo in che modo il prodotto rispetti davvero la natura e il verde. Ben vengano invece fatti e caratteristiche concreti/e del prodotto che andiamo ad acquistare, che spiegano nel dettaglio come e in che modo le azioni messe in campo siano o permettano di assumere atteggiamenti virtuosi per la tutela dell’ambiente.
Tutelarsi dal greenwashing: il futuro che ci attende
Altro obiettivo dichiarato è quello di rendere tali operazioni di comunicazione in greenwashing sanzionabili, anche da parte del consumatore che una volta concluso l’iter e recepita la norma dagli Stati membri potrà avvalersi della Giustizia ordinaria per risarcimenti e risoluzioni del contratto in caso di “truffra greenwashing”.
A tal proposito, bisogna ricordare che al momento l’Italia non ha nel suo Ordinamento una specifica regolamentazione sul greenwashing; tuttalpiù, potrebbe ravvedersi in talune operazioni di greenwash la cosidetta pubblicità ingannevole che invece è prevista dalle nostre leggi, anche se le due realtà in questione restano comunque molto distanti.