Un miliardo e duecentotrentuno milioni, con il coraggio di ripartire da zero
Dal vento di default all'iniezione di fiducia sull'asse Manfredi - Draghi. Come Napoli debba salvarsi, in primis da sé stessa, dopo essere sopravvissuta per miracolo.
Quando a Napoli, all’esterno del Maschio Angioino, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha stretto la mano al sindaco di fresca nomina della città partenopea Gaetano Manfredi, quello che c’era intorno sembrava potersi descrivere come ottimismo, sebbene i fondi provenienti direttamente dal PNRR del cosiddetto Patto per Napoli sono sembrati a molti anche un’occasione per cantare vittoria, quasi come a recuperarli dalle casseforti della BCE siano andati loro personalmente, con camion e buona volontà.
Una cifra importante, quella stanziata, anche se condita dalle solite manifestazioni d’intenti ormai vecchie almeno quanto i problemi della città. Tra questi, la celeberrima: “Se riparte Napoli riparte l’Italia” che ha il sapore dello slogan elettorale. Ma in un capoluogo un tempo capitale, che si può raccontare in tanti modi ma non certo banalmente, capace di dribblare vari default anche con una certa preoccupazione in fase di presentazione di bilanci, la consapevolezza che il “Patto per Napoli” sia un punto zero deve obbligatoriamente guidare l’azione di questa città. Il Comune dovrà mettere in campo una serie di riforme strutturali e adottare misure per rendere finalmente virtuose le finanze cittadine, a partire da un’aumento delle tributi locali (l’Irpef ad esempio dovrà salire dello 0,2% e sarà inserita una nuova tassa di imbarco all’Aeroporto di Capodichino).
Come stanno i conti di Napoli
Ma qual è la situazione reale dei conti pubblici napoletani? A novembre del 2021 il Comune di Napoli ha approvato il bilancio consolidato, il primo della Giunta targata Manfredi. Da quel documento è emerso che sull’ente di Piazza Municipio pesa un debito di 5 miliardi, per la precisione 4.899.650.012 euro.
“Il bilancio è già in dissesto nei fatti – disse allora il sindaco Gaetano Manfredi – ed è chiaro che, senza un’iniezione di risorse, il Comune non ce la fa”. Quell’iniezione è arrivata ma non copre il debito e per questo bisognerà trovare nuove entrate e soprattuto tagliare le spese.
Ma cosa c’è dentro questi 5 miliardi di euro? Il 65% del debito partenopeo, pari a circa 3,2 miliardi di euro, è formato da finanziamenti e quindi i prestiti obbligazionari contratti con banche e altre amministrazioni pubbliche. Più di 812 milioni di euro sono invece debiti che il Comune ha nei confronti dei fornitori. Milioni che pesano sull’economia reale della città perché sono circa 700 le aziende che aspettano di essere pagate da Palazzo San Giacomo e che rischiano di non vedere mai saldati i loro crediti.
A questo si aggiunge un altro fattore che rende il debito insostenibile nel tempo. Dal bilancio consolidato è emerso che a Napoli solo un cittadino su tre paga i tributi comunali. L’ente riesce a riscuotere solo 0,9% dei tributi evasi perché il sistema di riscossione è totalmente disorganizzato. Un comune che non incassa non ha entrate reali sulle quali poter costruire una struttura finanziaria virtuosa, di conseguenza il debito aumenta in maniera endemica di anno, in anno. Ad esempio, rispetto al 2020 il debito napoletano è cresciuto di ben 250milioni.
Il dissesto era la risposta?
Luigi de Magistris, negli anni da Sindaco, ha insistito su due fronti: quello della rinegoziazione e quello dello stralcio dei debiti delle fasi commissariali e cioè la crisi rifiuti, la bonifica di Bagnoli e il terremoto 1980, sui quali si sarebbe dovuto impegnare lo Stato. Oggi l’ex sindaco partenopeo, mentre assiste alle difficoltà del suo successore, ripete con una sottile soddisfazione che ha tutto il sapore della rivincita, che Manfredi in questi mesi ha iniziato “a capire quanto è difficile fare il sindaco senza avere un euro, quello che ho fatto io riuscendo lo stesso a gestire la città”.
C’è stato chi invece ha sempre invocato il dissesto come unica soluzione reale per risolvere una volta e per sempre la questione. Il dissesto significherebbe bloccare le spese del Comune per razionarle. Alcuni economisti e esponenti politici hanno in passato visto il possibile “Patto per Napoli” come un’accozzaglia di soluzioni poco realistiche che rischiano di diventare l’ennesimo provvedimento emergenziale, senza invece affrontare la questione del debito nella sua struttura. Vogliamo citare ad esempio Luigi Marattin, Presidente della Commissione Finanze della Camera, ultimo in ordine di tempo ad “augurare” il dissesto. In una intervista a Radio 24 di una manciata di mesi fa, Marattin afferma:
“Non bisogna continuare ad affibbiare al dissesto uno stigma punitivo, perchè altrimenti c’è un condizionamento culturale. In realtà il dissesto è esattamente quello che chiede il sindaco di Napoli Manfredi. Il sindaco chiede di separare la vecchia gestione, il vecchio debito, affidandolo ad un commissario, per poter ripartire con un nuovo ente libero e per poter così dimostrare, come dice lui, che anche a Napoli si può amministrare bene“
Luigi Marattin
Quali le criticità?
In realtà, sulle finanze pubbliche napoletane pesano almeno tre fattori. Il primo è quello delle aziende municipalizzate, create in anni di spesa pubblica illimitata, che oggi pur non svolgendo in concreto più alcuna funzione continuano ad avere strutture pesanti fatte di consigli d’amministrazione, dipendenti e impiegati.
Queste realtà pesano sulle casse comunali per reali servizi che spesso non riescono a erogare, ma difficilmente potranno essere tagliate perché rappresentano un bacino sociale di lavoro che la città non può permettersi di perdere e chiuderle sarebbe deleterio, a livello di consenso elettorale, per qualsiasi Giunta. Questo nonostante negli anni gli esempi di come le municipalizzate non siano state virtuosamente inserite nella macchina pubblica ci sono eccome.
Un esempio su tutti, senza scomodare la ormai tragica situazione ANM (Azienda Napoletana Mobilità): nel 2013 due ex primi cittadini del capoluogo campano (Rosa Russo Jervolino e Antonio Bassolino) e cinque ex amministratori (tra cui l’allora assessore Massimo Paolucci) sono stati condannati dalla Corte dei Conti perché, riportiamo ciò che scrisse all’epoca l’ASCA, “trecentosessantadue lavoratori dell’Ente di Bacino 5 sono stati pagati dalle amministrazioni del Comune di Napoli senza per questo essere realmente impiegati in attività operative ovvero nella raccolta dei rifiuti”. Al loro posto nacque l’Asia, attuale azienda di rifiuti anch’essa dalla storia (anche recente) non certo semplice.
Il secondo fattore critico è il sistema di riscossione dei tributi. Napoli è tra le città italiane che incassa meno. Sul bilancio comunale i tributi rappresentano solo il 12,3%, un dato sconfortante rispetto a realtà come Verona (44,94%) e Bari (44,13%) che sono ai vertici ma anche di Roma (40,55%) e Milano (35,18%).
Il terzo fattore è l’incapacità di razionalizzare la governance della struttura amministrativa, a partire dalle dieci Municipalità che da quando sono state varate hanno rappresentato solo una decuplicazione degli uffici senza però aumentare i servizi o diminuire i passaggi amministrativi.
Le milestone da raggiungere
I fondi che arriveranno per risolvere questa complessa faccenda Napoli sono vincolati al raggiungimento di obiettivi, quindi non si può tergiversare. Per ora, sul tavolo ci sono 54 milioni di euro: non pochi ma ben lontani dal miliardo e passa promesso e festeggiato come già acquisito. Del resto, la lezione sugli obiettivi mancati l’abbiamo avuta a più riprese, soprattutto con i fondi europei. In Campania abbiamo avuto già esperienze e minacce di dover restituire capitali ingenti per il mancato raggiungimento di obiettivi per i quali gli stessi fondi venivano erogati.
Purtroppo non siamo (più?) a un ristorante dove dopo aver mangiato a sbafo possiamo pensare di scappare senza pagare il conto ed è quindi il momento della responsabilità.
Il potenziamento della macchina comunale
Il primo proposito fissato dagli amministratori, come spesso accade in questi casi, è quello di fare nuove assunzioni a partire dal 2022. Ma l’obiettivo a lungo termine è quello di formare figure capaci di farsi carico di un processo inesorabile di efficientamento della macchina pubblica. Non è un caso che, di pari passo, la digitalizzazione entrerà prepotentemente nei processi pubblici, in primis quello definito critico della riscossione dei tributi.
Il solo efficientamento del sistema fiscale dovrebbe fruttare al Comune partenopeo, negli obiettivi del patto, 800 milioni. Il motivo per cui si parla di Patto per Napoli come “moltiplicatore” di fondi, quasi a voler smorzare il suo appeal da misura d’emergenza.
Patrimonio Immobiliare: dismissione o valorizzazione?
Altro argomento di lungo corso, altro bacino da cui attingere in passato per far quadrare i conti o sperare almeno che quadrino: la dismissione del Patrimonio ora con il Patto per Napoli diventa anche valorizzazione del Patrimonio, il tesoretto di beni immobili del Comune che inesorabilmente o trova il suo motivo di essere sfruttato o deve finire per essere venduto.
L’argomento torna nel Patto con una importanza tale da dedicarci un capitolo a sé stante dal titolo “Comparto Napoli”. “Comparto Napoli” prevede la collaborazione del Comune con Invimit, società facente parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef). Per poter procedere già entro giugno 2022, la squadra comunale ha già iniziato a revisionare i conti del patrimonio, per poi censire tutti i beni (di nuovo) e adeguare i canoni di concessione e locazione.
Razionalizzazione delle municipalizzate
Che le municipalizzate o partecipate siano un problema da gestire è evidente anche a chi ha contribuito alla stesura del “Patto per Napoli”. La parola chiave è razionalizzare. Ma c’è ancora da fare, o meglio a Palazzo San Giacomo c’è ancora da fare. Il tempo per presentare il piano è fissato a settembre 2022. E dovrà essere convincente e mettere d’accordo tutti. Cosa che in questi lunghi anni è sembrata una difficoltà impervia a ogni vertenza.